Se ti annoi a leggere puoi andare direttamente al video alla fine 😉
Ricordo ancora una relazione che ascoltai a Torino durante un’edizione di Osteology nel 2006 o giù di lì.
Non ricordo l’anno esatto ma ricordo molto bene il relatore, giovane , afroamericano, vestito con gran classe in completo chiaro e grandissimo comunicatore che fece una relazione/show che rompeva i dettami delle merda-relazioni di stampo accademico che inquinavano allora i congressi italiani.
La relazione partiva da un caso riabilitato su impianti dopo un milione di estrazioni di denti che a mia memoria erano quasi sani, con una bellissima riabilitazione solo bianca….
Poi il colpo di scena, f-up a qualche anno di distanza con i livelli gengivali parecchi millimetri più apicali e tutti i monconi fuori.
Frase ad effetto: “come vedete questo caso mi ha insegnato molto”
e take-home message del tipo: “non togliete denti a caso perché i denti durano più degli impianti”
Al tempo quel congresso mi servì moltissimo perché stavo prendendo una truce china mutilatoria e stavo iniziando a fare full’arch su impianti un po’ a tutti i casi complicati vendendo ai pazienti qualcosa del tipo “così non ci pensa più”.
Per fortuna, grazie a quel santo collega di oltreoceano, mi sono fermato in tempo e sono diventato un implantologo con una profonda formazione parodontale da salva denti.
Ripensandoci oggi però, in quel caso clinico, si trovava un’altra importantissima lezione che al tempo non colsi affatto..
Ricordiamoci che erano passati appena 3 anni dalla pubblicazione di Schropp ed un anno scarso dalle pubblicazioni di Araujo, Lindhe e Botticelli che sancivano una svolta nell’odontoiatria moderna. Questi lavori sancivano definitivamente che:
- Dopo un’estrazione l’osso alveolare si riassorbe in quota variabile ma molto rilevante
- Anche se ci metti un impianto dentro l’osso si riassorbe nello stesso identico modo
- Qualche anno dopo (nel 2008 per l’esattezza) sarebbe arrivata la terza drammatica conferma: se fai un lembo o no non cambia un cazzo, l’osso a sei mesi si riassorbe nello stesso modo!
Questo il bravo relatore americano non lo sapeva ancora o almeno non lo aveva ancora interiorizzato perché negli anni 90 gli impianti post-estrattivi erano stati studiati e pensati proprio per mettere l’impianto prima che si riassorbisse l’osso senza pensare però che questo si sarebbe poi riassorbito lo stesso lasciando parte dell’impianto fuori.
Certo oggi sappiamo che con tecniche di ridge preservation possiamo mantenere circa l’80% del volume originario in senso vestibolo palatale ma …. Quel 20% in media lo perdiamo ugualmente e dobbiamo compensarlo con un concetto molto più moderno e nuovo:
la soft tissue augmentation.
Abbiamo poi imparato a mettere gli impianti molto palatini e un po’ affondati in modo da non avere l’impianto esposto anche dopo il rimodellamento
Quando però lavoriamo su un’arcata completa dove alcune zone sono addirittura già riassorbite, la rimozione di tutti i denti comporta un riassorbimento ben più massivo rispetto ad un’estrazione singola.
Per non parlare del fatto che per compensare quella percentuale non preservata dalla ridge preservation dovremmo sfasciare il palato al paziente, più e più volte, pera umentare i tessui molli di un’intera arcata… oltre a compensare con complesse rigenerazioni ossee le zone già riassorbite.
La conseguenza sarebbero interventi multipli e mesi, se non anni, di trattamento.
Ecco perché, a parte nei casi in cui l’osso per mettere gli impianti non c’è e non vi è quindi alternativa, questa strada non la sceglie quasi nessuno.
Qualcuno però è rimasto convinto che mettere gli impianti negli alveoli, senza lembo, in chirurgia guidata ed adattando immediatamente un provvisorio possa prevenire il riassorbimento fisiologico in barba a tutta quella che è l’attuale conoscenza scientifica in merito.
Beh ragazzi, le cose non stanno così, basta vedere i casi che effettivamente vengono pubblicati a riprova della suddetta fantasiosa teoria. Casi in cui la previsione di riassorbimento è estremamente limitata e in cui, nonostante questo, si nota comunque una riduzione centripeta rilevante del mascellare. Questo porta a riabilitazioni solo bianche (perché secondo loro nonostante l’evidenza la cresta non si è riassorbita) che sono tipicamente convergenti verso il mascellare, con denti allungati, dimensioni verticali ridotte proprio per non fare i denti troppo lunghi e papille (o quelle che vengono chiamate papille) cortissime se non inesistenti.
Questa mattina ho iniziato un caso emblematico a riguardo e vorrei renderti partecipe dei miei ragionamenti. Poi sei libero di credere a chi vuoi e fare le scelte che preferisci ma ricorda che sarai tu a rispondere ai tuoi pazienti.
Ti lascio al video.
Bellissimo caso e articolo complimenti.
Ottima impostazione
Mah onestamente è mille volte più pulibile una protesi solo denti con adeguato volume gengivale che una protesi di toronto spessa con un bel sovracontorno rispetto al tessuto atrofico. Perchè al contrario di ciò che dici nel video, la toronto dal lato atrofico di quel paz non sarà mica stretta, tutt’altro! Dovrà estendersi vestibolarmente per ricreare l’arcata dentale creando un balcone tra protesi e gengiva atrofica che sarà tutt’altro che pulibile. Hai delle foto del controllo di igiene del paziente? Dai su dottor Tirone, sei bravissimo, ma non prenderci per i fondelli. Poi per carità avrei fatto anch’io una toronto a quel paziente, ma non venirmi a dire che è ben pulibile o che ha poco spessore vestibolo palatale (dal lato atrofico)
Caro Alberto, per risponderti io ed Erik, il mio tecnico, stiamo realizzando un breve filmato cosiì da poter chiarire ogni tuo dubbio. Appena sarà pronto lo pubblicheremo su Youtube.
A presto